Gesù e il giudaismo

Seminario di studi dell’ATI – Padova 4 marzo 1999

    Si è svolto, giovedì 4 marzo, il seminario di studi dell’ATI su Gesù e il giudaismo nella letteratura intertestamentaria. Come è noto, il seminario è uno dei tre che l’ATI ha organizzato in vista del congresso che le associazioni teologiche italiane faranno nel prossimo settembre a Collevalenza. Il seminario ha visto la partecipazione di una cinquantina di persone (53 per la precisione), ma fra queste pochi erano gli iscritti all’ATI, mentre la presenza più massiccia è stata data dagli studenti dello studio teologico di Gorizia-Trieste-Udine, con alcuni dei loro docenti. Al seminario è mancata poi la qualificata partecipazione del rabbino prof. Giuseppe Laras, che non ha potuto partecipare all’ultimo momento per un lutto in famiglia. Ciò ha tolto una voce importante al dialogo che è stato intrecciato tra gli altri relatori, ma non ha impedito che l’incontro fosse di grande interesse per la notevole abbondanza di stimoli e indicazioni che sono venute dalle relazioni in programma.
    L’assenza del prof. Laras è stata egregiamente colmata con la relazione del prof. Grusovin, che da sintetizzatore del seminario si è improvvisato relatore per la parte ebraica.
    Il programma prevedeva quattro relazioni, più una conclusione, affidate rispettivamente ai professori C. Marucci della Facoltà s. Luigi di Napoli, R. Fabris dello studio teologico di Udine, G. Segalla della Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale, G. Laras di Milano e M. Grusovin dello studio teologico di Udine. Già detto del cambio di programma, vediamo che cosa ci hanno offerto le relazioni effettivamente svolte.
    La mattina è stata impegnata dalle due relazioni di Marucci e Fabris. Il primo doveva affrontare il tema generale: Gesù e l’attesa messianica. Il relatore ha offerto in primo luogo un abbondantissimo florilegio di testi messianici del Giudaismo del tempo di Gesù. Si tratta di testi dell’entroterra veterotestamentario, seguiti da testi della letteratura intertestamentaria, dai Testamenti dei XII Patriarchi, dall’Henoch etiopico, dai Libri Sibillini, dai Salmi di Salomone, da Filone Alessandrino, dal IV libro di Esdra, da Flavio Giuseppe, dall’Apocalisse siriaca di Baruch e dalle diciotto benedizioni.
    Il solo elenco dei titoli dà l’idea della vastità oceanica dei riferimenti e quindi della difficoltà stessa di gestire tutto questo materiale. Il relatore infatti, ha tentato sia una descrizione del materiale che una sua valutazione critica, ma in pratica ha dovuto procedere per cenni, perché l’economia del seminario non permetteva ulteriori approfondimenti. Col senno di poi, si può dire che sarebbe bastata la tematica del prof. Marucci per occupare tutta la giornata ed in modo più che interessante.
    Comunque ad una conclusione si è giunti da questa comparazione di testi. Da una parte ad una relativizzazione della figura messianica, nel senso di una revisione critica operata dal cristianesimo e nello stesso tempo ad una ricollocazione in una prospettiva nuova, data dalla singolarità di Gesù: in lui e per lui l’attesa messianica della storia è proiettata oltre la storia, perché passa attraverso l’evento cruciale e non deducibile della Pasqua: la morte e la resurrezione di Gesù sono ad un tempo il compimento di un messianismo che unisce storia ed escatologia in una tensione che vede nella resurrezione e quindi nell’escatologia il realizzarsi definitivo della promessa di Dio e dell’attesa dell’umanità.
    Al prof. Fabris era stato affidato il compito di analizzare e confrontare tre categorie bibliche fondamentali: Legge, profezia e grazia. All’analisi delle categorie ha preposto una premessa metodologica per orientare nella ricerca e nella valutazione critica. Si parla di Gesù e del Giudaismo. Ma di quale Gesù? Si tratta del Gesù ‘storico’ e ‘reale’ conosciuto attraverso le fonti disponibili e attendibili, lette e interpretate criticamente, con l’affermazione della continuità e della novità tra il Gesù ‘storico-reale’ e il Cristo della fede. Così pure ci si occupa del Giudaismo del primo secolo dell’era volgare, conosciuto attraverso le fonti storiche disponibili: testi di Qumran, Aprocrifi, Targum, scrittori (G. Flavio, Filone). Bisogna tenere conto infine della pluralità di forme ed espressioni: giudaismo farisaico, che prelude a quello rabbinico successivo al 70 d.C.; giudaismo sadduceo, essenico, qumranico, ‘apocalittico’, ellenistico della diaspora.
    Dopo una appropriata analisi delle tre categorie, secondo i criteri sopra indicati, il prof. Fabris ha indicato le conclusioni che si possono ricavare.
    In primo luogo sulla Legge. 1) C’è una tensione ‘profetica’ della legge, aperta al compimento messianico ed escatologico. 2) La concentrazione etica della legge nell’amore del prossimo, come categoria ermeneutica di tutta la volontà di Dio. 3) L’interiorizzazione etico-religiosa della legge nel cuore dell’essere umano che consente di superare la distinzione tra puro/impuro, ebreo/non ebreo, uomo/donna.
    Sulla Profezia. 1) L’azione e la parola di Gesù si innestano sulla tradizione profetica della Bibbia anche se egli non si identifica con il modello del ‘profeta’. 2) Gesù utilizza questa categoria per esprimere la novità del suo annuncio del regno di Dio che irrompe nella storia, l’urgenza dell’annuncio del giudizio di Dio e la radicalità dell’appello che ne consegue. 3) L’attività taumaturgica di Gesù si colloca sullo sfondo della tradizione profetica della Bibbia, dove sono conosciuti profeti taumaturghi (Elia, Eliseo), e altre figure interpretate secondo il modello profetico (Mosè). 4) Per l’attualità di questa categoria profetica Gesù può riferirsi ad alcuni ambienti del giudaismo ‘marginale’ (Qumran e apocalittici).
    Sulla Grazia. 1) Questa categoria è presente in alcune parole di Gesù in cui egli annuncia il regno di Dio e nelle parabole dove si appella all’agire di Dio. 2) Gesù afferma la gratuità e la libertà dell’iniziativa di Dio che sceglie i piccoli, si rivolge ai poveri e dona il perdono ai peccatori.
    In conclusione, le tre categorie contribuiscono a definire, sotto il profilo storico, l’attività e l’insegnamento di Gesù. La novità o l’originalità del loro uso e valorizzazione da parte di Gesù consiste essenzialmente nel rapporto che egli stabilisce tra queste categorie e la coscienza del suo ruolo unico davanti a Dio e nella storia umana.
    Il pomeriggio è stato occupato dalle relazioni del prof. G. Segalla e M. Grusovin. Molto ricca, ampia e documentata la relazione di Segalla. Anch’egli ha voluto far precedere alla sua relazione una introduzione metodologica, che si esprime nella critica del metodo ‘storia della tradizione’, a motivo della sua unilateralità. Mette in luce il rapporto tra le azioni e i detti nella ricostruzione storica di Gesù. Afferma di usare il criterio di continuità o somiglianza con l’ambiente ebraico insieme a quello della discontinuità-dissomiglianza; di non cercare gli ipsissima verba di Gesù, ma di cercare l’intentio Jesu. Infine afferma di attenersi ad una visione eidetica o globale.
    La relazione consta di due parti: 1. Il tempio erodiano e lo spettro socio-religioso dei suoi significati. In particolare rilevante la presentazione dello spettro dei significati che il tempio aveva per il popolo ebraico, per la classe sacerdotale, per gli Esseni (Qumran), per Erode e gli erodiani e per i gentili. 2. Gesù e il tempio-santuario: l’intervento drammatico di Gesù e il suo significato. Dopo aver precisato che per tempio nei vangeli si usano due vocaboli: 42 testi con hieron (sempre del narratore) e 19 con naos (quasi sempre nei detti di Gesù), il prof. Segalla concentra la sua attenzione su Mc 11,15-18a. Si tratta del testo centrale che collega la purificazione del tempio, narrato nel vangelo, con la tradizione profetico-escatologica, e quindi aperta ad un futuro, che ancora una volta sarà determinato dalla pasqua di Cristo. Il relatore si interroga infatti: qual è il santuario futuro? È proprio la singolarità di Gesù a dare la risposta che ci attendiamo. Ma come è evidente, questa singolarità è percepibile non unicamente dalla comparazione positivistica dei testi, ma dal cogliere in essi l’intenzione di Gesù, il ‘vero’ tempio di Dio, come dirà Giovanni, reso edotto dal compimento intero della vicenda di Gesù (Gv 2,21-22).
    Il seminario si è concluso con la relazione sostitutiva di M. Grusovin: Gesù visto dagli ebrei. Ha presentato il pensiero e l’itinerario che gli ebrei hanno compiuto nella considerazione di Gesù, loro fratello, sulla scia aperta da S. Ben Chorin. Una sola sottolineatura può dare l’idea della strada da percorrere: l’interiorizzazione. Essa permette di avvicinarsi agli eventi ed alle persone con empatia, favorendo così una ‘comprensione’ che aiuta a superare pregiudizi, razionalmente consolidati.
    Una rapidissima conclusione. Il seminario ha offerto ai partecipanti una messe di informazioni e valutazioni, atte ad arricchire le loro conoscenze e a tenere desta la riflessione sulla fedeltà di Gesù di Nazareth alla storia del suo popolo, ma anche sulla novità di Gesù il Signore, non riducibile ad una storia soltanto umana.

Marino Qualizza

   

Considerazioni in margine al corso di aggiornamento ATI

Roma 28-30 dicembre 1998

    In primo luogo vorrei sottolineare l’importanza del tema proposto per questo Corso, che sembra segnare un ritorno di interesse della teologia italiana per i problemi di fondazione. Il tema del “parlare di Dio” è probabilmente sollecitato anche dalla sua valenza ecumenica e, ancor più, interreligiosa; ma forse non è questa la motivazione principale. Ancor più determinante mi è sembrata una nuova disponibilità a ritornare a un pensare forte, dopo che la critica al pensiero metafisico è stata non certo liquidata, ma piuttosto assorbita.
    Mi hanno favorevolmente impressionato la libertà del dibattito e la profondità di molti interventi (di relatori o partecipanti), come pure la significativa e qualificata presenza femminile. Se una mancanza si avverte è quella delle teologie protestante ed ortodossa, la cui presenza, anche al di là delle ragioni ecumeniche, porterebbe sicuramente un inestimabile arricchimento. Soprattutto ho trovato importante quel che mi è parso un nuovo interesse per il confronto con la filosofia, che mi pare oggi necessario per ovviare ai guasti della loro ormai lunga separazione.
    Non entriamo qui nel merito delle ragioni storiche di tale separazione. Ricordiamo però che se in Italia il dibattito teologico è in gran parte inascoltato, ciò dipende naturalmente dagli orientamenti culturali dominanti, ma anche dal fatto che la teologia non entra per lo più in confronto con la filosofia e più in generale con la produzione culturale. La teologia viene solitamente percepita nella sua confessionalità, molto più dell’esperienza religiosa, che è, o almeno appare, più comunicabile specialmente nelle sue manifestazioni pubbliche e nelle sue dimensioni sociali. L’elaborazione teologica invece non sembra avere l’interesse e l’efficacia, che possono toccare anche il non credente; nella sua pretesa di dare fondamento e giustificazione alla credenza religiosa va incontro al disinteresse di tutti coloro che non sono disposti ad apprezzare l’esperienza religiosa nella sua dimensione di verità ultima e trascendente. Da questo punto di vista, peraltro, la teologia patisce, in modo accentuato, un discredito che affligge anche la filosofia in quanto pretenda di essere ancora pensiero ultimo (trascendentale o ontologico o metafisico).
    Fra le conseguenze di questo relativo isolamento della teologia vi è il fatto che essa tende a diventare pensiero autoreferenziale, con il che, come in un circolo vizioso, accentua ancora di più il suo distacco dal dibattito culturale e diventa sempre meno interessante. Certo in questo modo viene garantito meglio il controllo del Magistero sull’elaborazione teologica, ma credo si debba riflettere attentamente sul prezzo altissimo che il mantenimento di queste condizioni di sicurezza comporta. Un’altra conseguenza dell’isolamento è che i teologi rischiano di incorrere in un uso acritico della filosofia (non meno che delle scienze umane) proprio in quanto si sottraggono di fatto al confronto pubblico.
    A sua volta la filosofia patisce del distacco dalla teologia. Certo non è questo un fenomeno solo italiano, ma l’assenza della teologia nelle Università statali favorisce quella deriva antispeculativa del pensiero, che anche in Italia sta crescendo. Non sono mancati negli ultimi anni in Italia incontri significativi fra filosofia e teologia. Basti pensare alla rivista che s’intitola appunto “Filosofia e Teologia” e che è diventata un luogo di intenso scambio e confronto. Non è senza significato il fatto che l’iniziativa sia stata promossa in prevalenza da filosofi, i quali avvertono – più di quanto non accada ai teologi – l’impoverimento derivante dalla perdita di contatto con la disciplina sorella.
    Ancor più significativo è l’incontro negli ultimi vent’anni di alcuni importanti pensatori italiani con le tematiche religiose e teologiche. Su tutti spicca il nome di Pareyson, che già nei suoi scritti giovanili aveva sostenuto che la questione del cristianesimo era decisiva per la filosofia e per la cultura in generale e che nell’ultima fase del suo pensiero ha svolto la filosofia speculativa direttamente come ermeneutica dell’esperienza religiosa. Occasioni come quelle del Corso dell’ATI sono importanti per sviluppare questa interazione di filosofia e teologia in un momento in cui, per contrastare le tendenze antispeculative, è necessario anche un reciproco sostegno: della filosofia a favore di una teologia che rischia di appiattirsi sulla filologia, sulle scienze umane e sulla pastorale, e della teologia a favore di una filosofia che rischia di perdersi negli specialismi dimentica della sua vocazione ontologica. Il nesso filosofia-teologia non è stato tematizzato nel Corso e tuttavia quei rischi connessi alla separazione delle due discipline sono stati segnalati in numerosi interventi insieme all’intenzione di imprimere (soprattutto alla teologia, la cui problematica era qui ovviamente in primo piano) una svolta, che peraltro si configura anche come un ritorno – ma con categorie nuove – alla sua più antica vocazione speculativa.
    La rivendicazione di questo carattere speculativo del pensare teologico è stata presente in tutte le relazioni dei teologi, in particolare in quella di Sequeri, che ha indicato tanto alla filosofia quanto alla teologia una prospettiva potremmo dire di fenomenologia fondamentale nella forma di una fenomenologia degli affetti come via per uscire dalle secche di una riflessione che, confondendo strumento con fine, resta rinchiusa nei limiti del linguaggio e di un’ermeneuticità autoreferenziale. Ma un’analoga rivendicazione è stata in fondo presente tanto nella relazione di Salmann con la sua affermazione di un circolo virtuoso di mistica e ragione, quanto in quella di Gamberini con la sua ripresa, in un’accentuazione ontologica, del tema classico dell’analogia. Assai sintomatico, a mio modo di vedere, è stato poi il modo in cui si è affrontato il tema dell’apofatismo. Esso è comparso o addirittura è stato centrale in almeno tre delle cinque relazioni. E tuttavia, se si eccettua forse quella di Baldini (che ha avuto peraltro un andamento più espositivo), l’apofatismo non è stato affrontato semplicemente come via di fuga dalla crisi della ragione e come antitesi ad essa.
    Mi pare che almeno due questioni siano rimaste aperte al termine dei lavori. La prima riguarda la valutazione del nichilismo contemporaneo. Più volte i discorsi hanno preso le mosse da esso, insistendo in particolare sullo svuotamento dei simboli, da cui nasce come una nuova forma di teologia negativa che non fa più riferimento all’oscurità mistica, ma è semplice differimento, per cui viene meno la differenza fra simbolo e realtà (Salmann) e il simbolo occupa tutto il campo della realtà. Su questo aspetto ha insistito Sequeri mostrando che è avvenuta un’inversione dell’ordine, per cui ciò che è strumentale (il segno) o successivo (la critica e l’interpretazione) diventa fine e prende il primo posto. Se la diagnosi è stata convergente, diversificato è stato il rapporto critico con cui ci si è collocati di fronte alle tendenze dominanti della tarda modernità. Mi pare che due diversi atteggiamenti si siano fronteggiati, sia pure implicitamente. Il primo è quello di chi tende a scavalcare la modernità in quanto segnata da un’impronta nichilistica; il secondo è quello di chi ritiene invece di doverla attraversare.
    La seconda questione aperta è quale sia l’approccio da privilegiare per invertire la tendenza e recuperare la dimensione veritativa del discorso filosofico e di quello teologico. Qui le vie sono sembrate dividersi tra la prospettiva fenomenologica, quella ermeneutica, quella mistica e quella neoscolastica. Ma le convergenze sono probabilmente più forti delle divergenze. In particolare mi pare si sia registrata una convergenza importante su un punto decisivo, e cioè che la conoscenza di Dio o, più in generale, il rapporto con la verità o è originario, fondato su esperienze originarie, o non è. Se in questo rapporto prevalga il silenzio mistico oppure l’apparire del fenomeno originario o se invece la dimensione interpretativa sia comunque costitutiva, è problema aperto o, meglio ancora, terreno di confronto e di scambio fecondo.
    Su queste due questioni aperte vorrei aggiungere, conclusivamente, qualche considerazione. Riguardo alla prima si potrebbe osservare che il processo di svuotamento dei simboli e il conseguente predominio della questione del linguaggio e dei segni o di un’ermeneutica intesa come processo interpretativo indefinitamente autoalimentantesi e che ha il suo motore nella rescissione del legame con la verità, sono un esito coerente, anche se non l’unico possibile, con lo spirito della modernità. Questo spirito, se non quell’esito, va assunto evitando ogni pretesa, un po’ artificiosa, di scavalcare la vicenda storica e culturale degli ultimi secoli. Ma non è questo il punto decisivo. Il punto decisivo è che l’esito odierno è la conseguenza di una rottura di quel realismo segnico, di quella coincidenza di simbolo e realtà, che alcuni (ad es. Conci) fanno risalire alle origini dell’Occidente e che oggi giungerebbe al suo completo dispiegamento. Ora questa lunghissima crisi è rappresentata – e non soltanto subita – dai simboli ebraico-cristiani. In essi lo svuotamento dei simboli è come anticipato dal loro contenuto, che porta ad espressione una contraddizione fra il divino e l’umano, fra l’infinito e il finito, fra l’eternità e il tempo, e in questa contraddizione esprime anche l’inadeguazione fra simbolo e realtà. Sono simboli che vogliono esprimere ciò che non possono realizzare: l’unità degli opposti è affermata e contraddetta. E tuttavia la contraddizione è posta come tale che, proprio attraverso di essa, si rappresenta il suo superamento. I simboli cristiani, infatti, rappresentano quella frattura in termini di peccato e di coinvolgimento di Dio in esso, vale a dire di frattura tanto ingiustificabile e inspiegabile quanto passibile di superamento (anche perché non originaria). Attraverso questi simboli si evita tanto l’illusione di ristabilire un rapporto diretto e magari immediato col divino quanto la deriva nichilistica.
    Riguardo alla seconda questione vorrei giustificare il privilegio che attribuisco alla via ermeneutica. Privilegio rispetto alla via mistica perché questa mi sembra esposta al rischio di disconoscere illusoriamente la frattura. L’apofatismo che si concepisca come autosufficiente è in fondo il rovescio dell’apofantismo: Dio viene pensato nel silenzio proprio perché l’ideale della parola è l’esplicitazione compiuta, e quando la parola riveli la sua inadeguatezza, non resta che il silenzio. E, in secondo luogo, perché la via mistica, pensando l’Uno (plotinianamente) come pura medesimezza originaria, lo considera superiore alla pluralità e all’alterità, ciò che almeno in parte contraddice l’esperienza (cristiana) dell’essere come libertà e relazione.
    Anche il ritorno alla neoscolastica mi sembra insoddisfacente, perché il rischio di ricadere nella metafisica ontica è incombente. Non si tratta di demonizzare la metafisica in generale (come forse anch’io ho dato l’impressione di fare), perché non è tanto l’atteggiamento metafisico in generale che è in discussione, se con metafisica s’intende un’ontologia di carattere trascendentistico, quanto piuttosto quel razionalismo metafisico, giustamente demolito da Heidegger, che resta ignaro della differenza ontologica.
    Quanto infine alla fenomenologia temo le ricadute oggettivistiche, cui una prospettiva ermeneutica può invece ovviare riconoscendo che il rapporto con la verità può essere originario anche se ha un carattere interpretativo. Per questo bisogna evitare l’errore diffuso (che ha peraltro una giustificazione nell’orientamento prevalente -antispeculativo – del pensiero ermeneutico contemporaneo) di considerare l’interpretazione soltanto come un sapere riflesso. Se così fosse, certo l’interpretazione non toccherebbe mai la verità. Nella forma, invece, del sapere riflesso può essere considerata come elaborazione critica di un’interpretazione che la precede e la fonda, quella in cui consiste l’originario rapporto dell’esistenza con l’essere. Ora il fatto che il rapporto originario sia interpretativo ha un duplice significato: da un lato giustifica meglio l’interpretazione come sapere riflesso, in quanto gli attribuisce la medesima forma del sapere originario, dall’altro esprime il carattere non parziale, ma particolare, determinato, prospettico, del rapporto dell’esistenza finita con la verità, che è l’unico che essa può intrattenere. Presumere che sia possibile un rapporto più oggettivo comporta il rischio di oscurare il carattere di trascendenza dell’essere, carattere che comporta l’inesauribilità delle sue manifestazioni. La determinatezza (che non è inadeguatezza) del rapporto dell’esistenza con l’essere è attestazione di questa inesauribilità proprio in quanto rapporto interpretativo con la verità, nel quale l’ermeneuticità consiste inseparabilmente nella determinatezza della prospettiva e nell’inesauribilità di senso che essa manifesta.
    Un’ermeneutica così intesa credo che possa dar luogo a un incontro fecondo tra filosofia e teologia, come il recente Corso dell’ATI ha dimostrato.

Claudio Ciancio

   

«Con tutti i suoi occhi la creatura vede l’aperto»

(M. Rilke, VIII Elegia, 1-2)

    Il linguaggio teologico, se non si riduce ad un gioco linguistico chiuso in se stesso, intransitivo, ma pretende di parlare di Dio, perché il «muro che ci separa da lui è costruito con le sue immagini» (Rilke), può ora riscoprire la sua vocazione a mantenere aperta l’esperienza conoscitiva in genere e quella della rivelazione e della fede in particolare. Il tentativo di ricollocare il linguaggio in campo aperto, risvegliando le parole morte e rompendo la gabbia di un impianto epistemologico astratto, aiuta la teologia a ritrovare una sicurezza che va molto al di là del processo fondativo logico e della nostalgia per la giustificazione narrativo-pragmatica, e si caratterizza piuttosto come capacità di mostrare e misurare la sua verità a partire dalla singolarità dell’evento storico.
    C. Ciancio, in apertura del corso di aggiornamento, ha insistito sulla frattura che separa il linguaggio dall’essere. Il mondo dell’esperienza quotidiana infatti è appesantito dal dolore, dal male e dalla colpa che la fede in Dio non toglie, ma semmai intensifica e aggrava e rispetto alla quale il linguaggio è sempre sotto quota. I due mondi, quello di Dio e quello dell’uomo, sono meno distanti tra di loro di quanto non lo siano queste realtà rispetto al linguaggio logico e razionale. Il linguaggio infatti comprende o interpreta la realtà solo se si lascia interrogare dall’incondizionata libertà finita dell’uomo, dall’incondizionata libertà infinita di Dio e dal loro gioco reciproco. L’ermeneutica dei simboli religiosi pensa dunque questa alterità, cioè questa alterazione e questa frattura, e cerca prima di ripararla e poi di abitarla correttamente e coraggiosamente.
    P.A. Sequeri contesta la piega semantica assunta dalla svolta linguistica contemporanea e suggerisce di oltrepassare l’orizzonte del simbolo per attingere la realtà del simbolico stesso. Il linguaggio infatti è solo lo strumento e il medio della manifestazione dell’esperienza originaria. L’esperienza del simbolico permette al linguaggio di anticipare l’incontro con la realtà prima della sua rottura dualistico-trascendentale operata dall’intelletto astratto e inclinata verso una deriva scettica: «Il fatto è che noi non crediamo più in questo mondo».
    M. Baldini si rappresenta il linguaggio come una piattaforma girevole al cui centro c’è la parola parlata, di uso comune e anche la chiacchiera più banale, mentre alla frontiera c’è la parola risvegliata e parlante dei mistici, la metafora viva dei poeti e dei bambini. Il mistico cerca il paradosso e lo esaspera, il filosofo cerca la mediazione riflessiva e rischia di svuotarlo.
    E. Salman insiste sul fatto che la dissomiglianza tra il creatore e la creatura può venir ridotta solo perché nella sua autorivelazione storica Dio si è presentato non come colui che è sempre più grande (Deus semper maior), ma come colui che si fa sempre più piccolo (Deus semper minor). Questo processo sfida l’uomo nel suo stesso luogo naturale, lo sradica e lo inserisce in un evento-processo dinamico di trasformazione simbolica (Intercorporeità, racconto e rappresentanza davanti al terzo che guarda) e lo richiama al suo carattere di secondarietà nei confronti della realtà totale.
    P. Gamberini riscopre la forza dell’analogia di relazione nella stessa autorivelazione storica di Dio e nella concentrazione cristologica che permette al linguaggio parabolico di capovolgere la distanza e la dissomiglianza sempre più grande dalla realtà divina nella vicinanza e nella somiglianza sempre più grande in forza dell’umanizzazione di Dio e dall’abilitazione conseguente dell’uomo a comprenderlo (Homo capax Dei).
    Il discorso sui limiti e sulle possibilità del linguaggio non è dunque un puro esercizio logico o metodologico, ma pretende anche di aprire lo spazio ontologico della mediazione umana alla realtà singolare dell’autorivelazione storica di Dio. In questa impresa il linguaggio teologico che si avvale della meditazione filosofica in genere e di quella di Heidegger in particolare, talvolta prova un moto di insofferenza o di fastidio per questa situazione di dipendenza. Ma su questo punto la compagnia del filosofo può essere solo vantaggiosa, perché incoraggia la teologia a riscoprire la sua specificità e la sua originale storicità.
    Heidegger in Fenomenologia e teologia infatti dà un suggerimento interessante ai teologi in dialogo con la filosofia: pensare e articolare un’epistemologia dell’effettività storica, cioè dell’evento singolare in quanto tale. Questo presuppone la possibilità di comprendere la storicità non irrigidita in un paradigma scientifico astratto, ma come lo spazio ontologico e linguistico dell’accadere dell’evento storico singolare. Quest’ontologia della singolarità storica, di cui la teologia è custode e di cui deve rendere ragione, sfugge sia all’astrazione dell’epistemologia della scienza sia a quella dell’ontologia fondamentale.
    Raccogliendo il suggerimento di Heidegger a pensare fino in fondo l’universale validità dell’evento storico singolare della rivelazione in quanto tale, la teologia deve chiedersi quali siano le resistenze originarie e quali siano i condizionamenti strutturali in atto sui quali intervenire in vista di un creativo oltrepassamento.
    Innanzitutto un nesso profondo lega la dimensione logica della teologia occidentale all’ontologia fondamentale e all’epistemologia dei greci. Tale nesso però non blocca necessariamente e in maniera irreversibile il linguaggio teologico nella sua struttura astratta, ma è solo la traccia di un suo debito originario verso la fisica greca che fin dall’inizio si è manifestata come vera metafisica. Sul nostro linguaggio teologico però da sempre preme non solo la ricerca della figura storica del divino dei primi pensatori greci, ma anche l’esperienza storica della rivelazione ebraica, che orienta alla riscoperta del senso profondo dell’effettività. A dispetto quindi delle cosiddetta svolta linguistica che tenderebbe a sostituire la filosofia prima intesa come logica dell’essere astratto con quella delle strutture astratte del linguaggio logico, il linguaggio teologico si storicizza e cerca di dire metaforicamente, paradossalmente l’assolutezza dell’evento della rivelazione di Dio nella sua irrepetibile emergenza temporale ebraica e nella sua singolare concentrazione cristologico-pasquale.
    Il linguaggio teologico pertanto articola linguisticamente l’evento storico della rivelazione, di cui evidenzia non solo l’unicità, ma anche il tratto della verità e della libertà. Questa riconquista dell’originario conferma e supera la critica di J. F. Lyotard alla logica fondativa della scienza e a quella narrativa dei grandi racconti. Se è certamente finito non solo il tempo delle pretese fondative di tipo mitico e teologico, ma anche di quelle di tipo logico-matematico, forse questo è però il momento di superare la frammentazione e il pragmatismo postmoderno per riscoprire la singolare valenza ontologica dell’evento storico. Solo dopo aver verificato la pesantezza della fondazione metafisico-razionale, l’insostenibile leggerezza della fondazione critico-trascendentale e l’inconcludenza della fondazione linguistico-trascendentale della realtà, sia essa logica, pragmatica o simbolica, la teologia rialza la testa e scommette sull’affidabilità ontologica dell’accadere linguistico dell’evento della rivelazione di Dio, che non è riducibile ad oggetto astratto di conoscenza ma è invece e soprattutto il libero soggetto dell’autorivelazione storica.
    Paradigmatica, a questo proposito, risulta la testimonianza della grande tradizione scolastica medioevale, rappresentata da Anselmo. Nel suo itinerario la mente fa l’esperienza di una realtà divina che sorpassa ogni capacità di comprensione intellettuale e di espressione linguistica, senza però esonerare l’uomo dal compito di renderne ragione attraverso l’anticipazione fiduciale, l’obiettivazione razionale e l’assenso libero e personale. Così Anselmo si esprime nel Proslogion: «Che cosa farà il tuo servo, nell’ansia del tuo amore, gettato lontano dal tuo volto? Anela di vederti e troppo lontano da lui, il tuo volto. Desidera di inoltrarsi fino a te, e la tua abitazione è impenetrabile. Brama trovarti e non sa dove stai. Fa di tutto per cercarti e ignora i tuoi lineamenti. Signore sei il mio Dio e sei il mio Signore; e non ti ho visto mai. Tu mi hai fatto e rifatto, e mi hai fatto avere tutti i beni che ho, e non so ancora chi sei. Sono stato fatto infine per vederti, e non ho fatto ancora ciò per cui fui fatto» (ANSELMO D’AOSTA, Proslogion, a cura di G. Sandri, CEDAM, Padova 1959, I, p. 91).
    Incamminarsi verso l’esperienza originaria della rivelazione, attraverso la comprensione della fede, significa riscoprire la complessità d’accento di un linguaggio che parla ad un tempo di una esperienza storica all’intelletto, alla volontà e all’affetto. È come se si riaprissero gli occhi e si potesse riconoscere la presenza di una realtà che parla con la forza e la necessità di ciò che è radicalmente gratuito. L’evento storico fondatore cristiano infatti non è trasponibile in un linguaggio oggettivante, né fondabile con prove razionali o con dati positivi confermanti, estranei all’evento fondatore stesso. Solo comprendendo la verità presupposta e fondante di questo evento io posso interpretare nel suo orizzonte veritativo e linguistico anche il senso e la verità della mia esistenza.
    Questo vedere, che non abbandona la singolarità dell’evento storico pur aprendosi all’assoluto, viene definito da Heidegger nel saggio: Il concetto hegeliano di esperienza, raccolto nel volume Sentieri interrotti, come un “vedere fenomenologico”. In questa forma di esperienza non si manifesta però solo la cosa in sè, che si impone all’orizzonte soggettivo-trascendentale dell’esserci ed è in grado di farle resistenza, ma anche l’accadere di qualcosa di più grande, cioè la parusia dell’assoluto nel cui orizzonte la posizione del soggetto e la donazione di senso dell’assoluto al soggetto stesso coincidono.
    Questa osservazione che riguarda il rapporto tra la conoscenza e la realtà, deve essere estesa anche al linguaggio. Il linguaggio testimonia infatti la decisione soggettiva e libera di aprirsi e di incontrare la verità più profonda dell’esperienza quotidiana, offerta tanto nella modalità di una mistica dell’ineffabile quanto in quella di un’ontologia dell’inesauribile.
    Il linguaggio teologico pertanto non si limita ad oggettivare il senso profondo della realtà, ma cerca di venirne a capo comprendendo e interpretando se stesso a partire dal mistero Dio, cioè a partire dalla realtà che tutto determina. Viene avviato così il superamento della frattura tra noi e Dio. Lo spazio linguistico pertanto è lo spazio storico e libero in cui viene raccolta questa sfida: dire la relazione che intercorre tra incondizionata libertà finita e creata dell’uomo e l’incondizionata libertà infinita e costituente di Dio, avvalendosi del gioco ontologico della loro reciprocità dialogica, irriducibile ad ogni fusione di orizzonti e riconoscibile solo in forza della decisione libera dei due partner del dialogo della rivelazione.

Giuseppe Accordini

   

Il dibattito sul pluralismo religioso

Considerazioni sul ‘caso’ Dupuis

    Come sarebbe bello e fruttuoso un dibattito sereno e libero di teologi sull’opera di p. Dupuis, dedicata al problema del pluralismo religioso, senza la preoccupazione che le eventuali riflessioni critiche invece che contributi positivi alla ricerca vengano prese come sentenze dogmatiche emesse immediatamente in nome dell’ortodossia.
    Fino a un certo momento le discussioni e le recensioni mi pare siano state esemplari; mi riferisco al Congresso ATI di Troina 1997 e successivi interventi in vari Forum ATI su Rassegna di Teologia così pure, p. es., al dibattito promosso presso l’Istituto Cattolico di Parigi il 27 ottobre 1997 dalla ‘Du Cerf’ in occasione del 200° numero della collana Cogitatio fidei (che appunto contrassegna l’edizione francese del volume di p. Dupuis), al quale parteciparono il nuovo arcivescovo di Strasburgo, J. Doré (teologo), il p. C. Geffré e il p. Dupuis (cf il n. di giugno 1998 della Vie spirituelle, pp. 573-586, che riporta i due interventi: del p. Dupuis e del p. Geffré); mi permetto anche di aggiungere la mia recensione apparsa su Studia Patavina 1 (1998) 220-221; e di segnalare un incontro ecumenico (non ancora pubblicato) tenutosi a Venezia (8 ott. 1998), al quale oltre al sottoscritto, a p. Dupuis e a uno studioso ortodosso, intervenne pure il pastore valdese P. Ricca, che espresse la convinzione che, a parte l’ottica cattolica, l’opera di p. Dupuis può considerarsi una ‘summa’ autorevole dei dati che fondano la risposta cristiana al pluralismo delle religioni.
    Purtroppo, col noto avvio di procedimenti censori da parte delle autorità romane, il clima si sta deteriorando a danno del sogno di quel dibattito fraterno di cui ho appena parlato. Grazie a Dio e con grande gioia possiamo, però, riferirci ad un prezioso intervento del Card. König apparso su The Tablet 16 gennaio scorso (1999), pp. 76-77, dal titolo “In defence of Fr. Dupuis”, nel quale il cardinale non entra direttamente nel merito dei contenuti del volume (anche se ne sottolinea la radicazione puntigliosa sui dati recenti e autentici del Magistero, per portarne avanti la riflessione e maturare la propria proposta), ma insiste piuttosto e molto sul clima di sfiducia che l’intervento di Roma sta rendendo pesante nella chiesa e in particolare nel mondo dei teologi che sono impegnati sul gravissimo e ineludibile problema del confronto del cristianesimo con le religioni non cristiane; egli parla di ‘campanello di allarme’, che diffonde ansie e paure, di ‘clima di diffidenza e sospetto generalizzato’, di passi ‘prematuri’ e troppo veloci, di ‘approccio sbagliato’ che rischia di giudicare le religioni non cristiane secondo criteri condizionati da ‘eredità del colonialismo’ e che quindi ‘sanno di arroganza’.
È vero: la questione di fondo sta nella mens e nella spiritualità con cui ci si deve disporre ad un dialogo così decisivo. Può essere utile riferire una mia esperienza? A ridosso del Concilio (fine anni ’60) la Congregazione ex S. Uffizio convocò un incontro di vescovi e teologi di 10 paesi… principali… produttori di teologia (per l’Italia Mons. Carlo Colombo assunse me come suo partner), per discutere sul come rinnovare il metodo in ordine ai compiti della promozione della fede; e si fu tutti d’accordo nel ritenere che non sono più attuali le forme censorie e repressive e che invece occorre praticare la via della promozione positiva, ma (si noti!) attraverso il coinvolgimento ‘in prima istanza delle chiese locali e particolari’ (noi oggi lo chiameremmo ‘dal basso’ o ‘a partire dalla periferia’). Sembra tramontata oggi quell’utopia? Comunque se ne dovrebbero studiare le cause; ritengo che è tutta la realtà della chiesa locale (e non solo la sua teologia) che fa fatica ad attuare un proprio autentico protagonismo, il peso della tradizione contraria essendo troppo forte; inoltre alcuni teologi han forse corso troppo veloci e troppo in avanti rispetto al resto della chiesa, ma alcuni altri hanno continuato a coprire la propria indisturbata inerzia con il comodo alibi di un appello agli organismi centrali demandando ad essi il compito di tutelare e promuovere la fede in quanto ortodossia… In ogni caso la situazione attuale non pare confortante.
    Ripeto qui quanto ho più volte sostenuto apertamente, anche in alto loco: i teologi spesso fanno silenzio perché temono che esprimendo critiche o riserve su colleghi teologi ‘sospettati’ danno l’impressione che eventuali loro giudizi siano considerati, in alto, e (quel che è peggio) utilizzati, quali prove o sentenze di tipo giuridico, quasi da pubblici ministeri o avvocati di accusa, contro imputati, e dentro una sorta di processo giudiziario già in atto. D’altra parte i mass media, oggi, mettono in piazza i problemi teologici in un modo tale che pare si sia costretti a rispondere riduttivamente e semplicisticamente soltanto con un frettoloso e secco aut aut, o pro o contro, come se si trattasse, quasi, di schierarsi in un referendum pubblico (con chi stai?).
    E il mio parere sul contenuto del lavoro di p. Dupuis? Rimando alla recensione sopra citata. Vorrei però insistere almeno su alcuni punti. Anzitutto la chiesa, come suggerisce il Card. König, dovrebbe coltivare con maggiore pazienza il ‘senso del problema’ che le sta davanti; si tratta di un problema veramente nuovo, gravissimo, e che ci accompagnerà per lungo tempo. Mai in passato gli ‘altri mondi religiosi’ ci sono parsi così vicini come oggi; restavano circoscritti in spazi e tempi ben ‘definiti’, quasi trattenuti lontano da ‘rigidi confini’ (come era di noi cristiani, del resto), valicabili, eventualmente, solo o con la guerra, o con la missione improntata talora addirittura a schemi di quasi invasione coloniale; oggi gli strumenti della scienza e della tecnica rendono inevitabile la miscelata circolazione, la mutua inter-invasività, la piena sincronicità e conspazialità.
    Siamo impegnati, tutti, all’esperienza della correlazione e dello scambio vitale, prima dello stesso reciproco dialogo di fede e di teologia!, e lo stesso dialogo dottrinale dovrebbe saper attingere anche, ed anzitutto, proprio dalla prassi! (Nell’enciclica Ut unum sint il papa più volte confessa che l’esperienza degli incontri vivi ci apre gli occhi, cf nn. 15; 23…, e che lui stesso ha imparato da essa, cf nn. 24; 25; 42; 47; 71; 84). Per questo io sono portato a concedere a priori la mia fiducia a chi, come p. Dupuis, costruisce una sua riflessione teologica dopo essere vissuto per circa trent’anni dentro quell’universo religioso, e può riuscire ad interpretarlo dall’interno, e invece oso insistere sulla disponibilità a sapersi mettere in questione quando mi riferisco a coloro che costruiscono teologia chiusi nella propria cella sacra (senza per questo voler affermare che solo una parte può essere vittima di condizionamenti e di unilateralità!). Comunque, il nuovo e gravissimo problema esige che pensiamo tutti a curarci prima i nostri occhi, a predisporre e adeguare la nostra capacità visiva (cf Ut unum sint già citata).
    Spesso si fa appello alla verità, come primo criterio di ogni dialogo e incontro. Certo, la verità è il metro; ma subentra l’interrogativo: perché non ci chiediamo piuttosto se non si tratti, talora, non della Verità in sé ed oggettiva (che in ultima analisi è Mistero, è Trascendenza, è Dio), bensì della verità in quanto fatta ‘nostra’, espressa in forme linguistiche e culturali nostre? Non per nulla il Card. König accennava al peso della nostra tradizione occidentale, in quanto legata almeno in parte al colonialismo e al senso della superiorità. Il celeberrimo Gruppo ecumenico di Dombes (documento del 1991) invita ad umiltà, a verifica e conversione, proprio le chiese in quanto tali e quindi le loro teologie! Mi chiedo però: chi ascolta davvero e sinceramente questa provocazione? chi vuole e sa mettere in questione se stesso, prima di mettere in questione gli altri? così da riuscire a ricevere e non solo a dare, a imparare e non solo a insegnare? e perciò a camminare insieme, e ad attuare reciproca correzione fraterna, emulazione santa, per un’ascesa progressiva sempre più in alto, verso il Dio (e, per noi, il Cristo) che è sempre più grande anche della nostra mente e non solo del nostro cuore?
    Vengo al problema cruciale: non c’è il rischio di cedere sulla unicità e assolutezza di Cristo? Sì, questo è il nodo dei nodi, la drammatica novità teologica. Stiamo cercando, tutti, una soluzione che sia adeguata alle nuove condizioni di pluralismo religioso sincronico. Anche il contributo di p. Dupuis è solo un tentativo, una proposta. Dicevo sopra: se sopravviene una censura d’autorità, la discussione necessaria tra teologi viene bloccata. In ogni caso, mi pare di poter dire che nessuno (tanto meno p. Dupuis) vuole aggredire i dogmi cristologici della chiesa, i quali del resto qualificano l’originalità (anche ‘culturale’ e non solo dottrinale!) della fede e della religione cristiana; si tratta di esplorare interpretazioni nuove che riescano ad integrare al proprio interno anche le acquisizioni attuali della teologia e del Magistero sul valore positivo delle fedi non cristiane. Il ventaglio delle posizioni teologiche al riguardo pare veramente angusto, e ciò spiega il tentativo di p. Dupuis di battere una sua strada originale, pur con la conseguenza che i recensori sono portati a misurarla ancora sugli schemi usuali. Occorrerebbe tener conto di tutto l’arco dei suoi scritti; in particolare vorrei segnalare che Studia Patavina, anche per mio interessamento, riporta (n. 2 [1995] 135-145) un suo intervento critico nei confronti delle posizioni di Panikkar e Dom Le Saux, le quali, a suo parere, rischiano di sfumare in mito o simbolo l’evento concreto di Cristo. In ogni caso egli non intende ridurre l’unicità e la singolarità di Cristo, bensì di procedere verso una comprensione e una valorizzazione ancora maggiori della sua unica divina originalità.
    Qualche anno fa nel campo ecumenico fece scalpore un volume del teologo ecumenico indiano M. Thomas, Risking Christ for Christ’s sake, CEC 1987; col quale appunto spronava a ripensare la cristologia proprio ‘per amore di Cristo’! Credo che tale sia l’orientamento di p. Dupuis, e ritengo che alcuni suoi critici, ma forse anche senza rendersene conto, parrebbero dominati dalla preoccupazione di difendere non tanto Cristo, mossi dall’amore di Cristo, quanto invece il ‘loro’ Cristo, le fasce in cui l’hanno custodito e tenuto stretto per poterlo (certamente!) amare. Dobbiamo credere invece, anche noi teologi (so che è molto difficile ammetterlo! anch’io devo sempre richiamarmi al primato della fede sulla teologia che sto praticando!), che Cristo è sempre più grande (è Altissimo!) del nostro balbettio razionale.
    Il nuovo immane problema esige chiesa e teologia più pazienti, molto più disposte a far credito alla preghiera e a una fatica riflessiva più lunga, più profonda e più comunitaria. Occorre far più spazio al saper tacere, al riconoscere l’arduità dei problemi che toccano la trascendenza del mistero, quindi a una saggia dose di apofatismo (che, per la verità, e purtroppo!, non mi sembra molto di casa nella nostra teologia). Sono consapevole che alcuni teologi potrebbero giudicare questo mio discorso come una caduta nel campo della spiritualità, un esodo dall’autentica teologia che richiede specifica razionalità critica. Ma io seguo la tradizione di quella scuola francese che, da Sertillanges, a Gratry, a Guitton…, tratta la riflessione teologica anche come autentico esercizio spirituale dell’intelletto.

Luigi Sartori

   

Ancora in memoria di Edoardo Benvenuto

    Non posso collocarmi a fianco di chi ha conosciuto bene la grandezza dell’intelligenza o quella ancora più intima del cuore di Benvenuto, desidero però presentare ugualmente la posizione di chi lo ha conosciuto per un poco traendone un personale arricchimento e apprezzandone soprattutto la profonda fede di laico della Chiesa cattolica. Sono debitore di Edoardo Benvenuto per due momenti di emozione intellettuale e spirituale profonda. La prima volta che lo vivi e conobbi fu a S. Giovanni in Fiore, in occasione del Congresso ATI del 1983 su L’ingresso della coscienza storica nella teologia trinitaria, dove fece una comunicazione su “Numero e Teologia”. Mi colpì la seria preparazione filosofica e teologica di quel laico genovese, capace di competere ad armi pari e con rispetto con i migliori teologi italiani. Per me, giovanissimo prete savonese, la figura di un laico così addentro alle tematiche teologiche apparve come segno profetico di apertura e di speranza, soprattutto per quella provenienza genovese che a noi savonesi appariva conservatrice e clericale sotto il “dominio incontrastato” del Card. Siri.
    La seconda occasione capitò nel 1997, poco prima del manifestarsi del suo male. Il nostro incontro è stato opera di amici e parenti savonesi, tramite i quali è stato possibile invitarlo ad una conferenza nella Parrocchia di S. Dalmazio, che aveva allestito una piccola mostra sulle origini della Chiesa parrocchiale. Grande è stato per me il piacere nell’ascoltare quelle parole di pregevole profondità teologica, poiché Benvenuto non solo trasmise il suo amore per l’arte a soggetto religioso, ma soprattutto diede magistrale lezione teologica sul valore effettivo delle parole, delle immagini e delle costruzioni religiose, mostrando grandezza e limiti di ogni nostra realizzazione in confronto alla Realtà indicibile, inimmaginabile, non ospitabile nelle nostre costruzioni architettoniche. Quella sera mi sono ulteriormente convinto della profondità e acutezza di spirito di Edoardo Benvenuto, della sua totale dedizione e amore alla verità, ricercata in ogni manifestazione dell’intelligenza umana, della sua fede solida e matura. È stata una grande testimonianza di un cristiano capace di guardare a tutto tondo il patrimonio teologico e artistico della nostra cultura cristiana. Benvenuto è stato in grado di innalzarsi alle più alte vette del gusto artistico di ogni epoca e con la sua formazione teologica di vedere anche l’impossibilità di raggiungere la vetta più alta della bellezza di Dio. Lucido, pacato, con grande disponibilità ad ascoltare ogni obiezione, ha regalato ad una comunità parrocchiale una chiara testimonianza di laico innamorato della sua fede e della sua chiesa. Il dono della sua ultima fatica teologica, Il lieto annunzio ai poveri, (EDB/1997), ricevuto qualche giorno dopo, mi ha ulteriormente fatto apprezzare la grandezza di questo teologo anomalo, fuori dagli schemi e pur dentro l’anima più profonda della Chiesa in cui aveva creduto e vissuto tutta la sua vita.
    Queste parole sono nate in una famiglia savonese, imparentata alla famiglia della sorella di Benvenuto, e vogliono sottolineare lo stretto rapporto che può esserci tra una grande mente e le semplicità familiari, soprattutto nell’accoglienza e nel dialogo anche coi più piccoli. Benvenuto sembrava, in questo, impareggiabile; ne ebbi un chiaro esempio negli allievi del Liceo Artistico, dove insegno, tutti entusiasti di quel professore di Scienza delle Costruzioni, che sapeva più filosofia dei filosofi e parlava di teologia meglio dei preti. La teologia di Benvenuto esce dalle accademie ma non è meno bella o critica, anzi sembra godere di freschezza e forza originali, è capace di parlare a molti, professionisti e dilettanti. È la teologia di un laico che ama pensare seriamente e totalmente la sua fede, liberamente, senza costrizioni e senza la inutile pretesa di creare sensazionalismo o adepti.
    Questa sua semplicità, intesa come libertà da ogni apparato, come capacità di mantenere la distanza critica da tutto, mi è parsa una nota personale caratterizzante. Qualcuno lo ha definito un umanista, e forse è proprio vero, e potremmo aggiungere un cristiano nuovo, perché capace di ritrovare la centralità di ogni cristiano inserito nel Cristo senza altre mediazioni. Forse è proprio questo che permetteva a Benvenuto di misurarsi con le intelligenze più alte della teologia e di impegnarsi nella catechesi parrocchiale. Grazie Edoardo.

Giovanni Lupino

   

Seminario di studio dell’ATISM

    L’Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale (ATISM) organizza un seminario di studio da tenersi dal 5 al 9 luglio ’99 all’Oasi di Spuligni / Zafferana Etnea (Catania) – una località a 700 metri di altitudine sull’Etna – aperto anche ai Soci dell’ATI e, più in generale, a docenti di materie teologiche, sul tema: La teologia morale cattolica: stato dell’arte su cinque temi. Si tratta di un momento di riflessione collettiva tra docenti di teologia (giovani e meno giovani) sullo stato attuale delle diverse problematiche morali. Aggiornamento da una parte, ma anche confronto e elaborazione di strategie teoretiche per la soluzione sulle nuove problematiche. Sarà presa in considerazione anche la situazione culturale della Chiesa italiana per rispondere con precisione alle sue reali esigenze. Sono previsti cinque relatori che aggiornano su ciascun argomento: F. Compagnoni: Dottrina sociale della Chiesa; K. Golser: Ecologia e magistero; R. Frattallone: Teologia morale, teologia pastorale e spiritualità; S. Leone: Bioetica; S. Privitera: Teologia morale.

    Per informazioni ed iscrizioni (trattandosi di un seminario è previsto il numero chiuso) rivolgersi a:

Salvatore Privitera
Istituto Siciliano di Bioetica
Piazza S. Domenico
95024 Acireale CT
Tel 095.763.11.324
Fax 095.763.49.31
E-mail: salpriisb@tau.it

 

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